Musica Scienza e Cultura.
Nello specifico Baglioni e “Moby Dick” Associazione per le Unità di Cure Continuativre O.N.I.U.S.
La vita e il simbolo.
Tu, come stai? L’attenzione all’altro, l’incontro e l’uso di quel “tu” che è di per sé un abbraccio, una sedia che si avvicina ad un letto e un cuore che si apre all’ascolto dell’altro. E poi insieme la capacità umana insperata, sorprendente, inattesa di persistere in quello in cui si crede, e la lotta senza tregua, il viaggio, e anche a volte il rischio: della rabbia, dell’odio che possano portare ad inabissarsi.
Tu, come stai?
Ciò che più mi ha colpito di questa esperienza ( Convegno Nazionale su “L’intervento psicologico in oncologia. Misericordia, Compassione e Relazione di aiuto” presso la sede del CNR in via Marruccini, promosso dall’Associazione “Moby Dick) è il tono della voce con cui quasi tutti i relatori (peccato! non tutti) hanno espresso, difeso, gridato le loro idee che ogni giorno concretamente vivono . Si sente che le loro non sono solo parole. Non ci sarebbe stato quel silenzio quasi sacro in sala se non fossimo stati tutti coinvolti emotivamente dalla loro realtà dell’anima.
E’ la loro vita di cui ci fanno partecipi, quella che quotidianamente affrontano e che non li molla mai, che non permette loro di distrarsi. Ma come si fa quando di fronte a te sono gli occhi grandi di un bambino che si sgranano nelle domande che ti interrogano o le rughe crespose che socchiudono gli occhi di un anziano? Come si fa a staccare e a non pensare?
La vita è esperienza diretta e quando la devi costruire e fortificare sull’affrontare al meglio l’esistenza di chi ti sta a guardare allora ci si rende conto che è negli occhi del curante che il paziente si rispecchia, lì non puoi sfuggire. Allora chiariamolo chi è il curante, allarghiamo lo sguardo, non ci soffermiamo solo sul camice bianco del medico,torniamo indietro, indietro, al primo incontro con il malato, bambino adulto o anziano che sia.
In prima battuta è l’infermiere che incontriamo, che non solo è un operatote tecnico ma colui che, in un lungo lavoro di èquipe, ha il privilegio di toccare per primo il paziente.
Il “ tocco”, il primo contatto ha la fragilità di un incontro e non mai l’asperità di uno scontro. Alla sorgente della parola e dell’azione ci sia dunque sempre continua formazione. Ecco perché parliamo di Misericordia.
Che cos’è la Misericordia se non la capacità di fare spazio dentro di noi alla vita dell’altro e dunque accogliere l’altro e la sua sofferenza? Che è altra cosa dal dolore; il dolore lo devi combattere ed è fondamentale la sua cancellazione con tutti i mezzi di cui noi oggi disponiamo.
La sofferenza è altra cosa , la sofferenza è il dolore da sopportare.
Ho adoperato il termine “accogliere”; accanto ad esso possiamo aggiungere “ascolto “ e “accompagnamento” le tre A che segnano la strada.
Accogliere, ricevere l’altro ed imparare ad ascoltarlo, anche nella profondità abissale del suo silenzio. Perché il silenzio ha una sua voce che il cuore non l’orecchio percepisce. Emisericordia allora è anche quel silenzio che diventa il tuo, e che unisce la vita altra da te alla tua, e fa procedere insieme nella completezza di un profondo rispetto e una nuova comprensione. Solo così sarà possibile accompagnare la persona che è stata affidata. I rapporti umani sono le fondamenta di ogni sapere, di ogni scienza, di ogni capacità di esistenza.
Tu, come stai? Non è indispensabile riempire il vuoto di parole con altre parole, l’importante è “esserci”. Conosce bene il volontario, parte integrante del sistema che gravita intorno al paziente , l’enormità dei silenzi, mano nella mano, accanto ad occhi senza più espressione , a frasi sussurrate, a sorrisi spenti. A sguardi che chiedono risposte.
Nella nuova realtà che schiaccia l’individuo colpito dalla malattia, il vedere la costanza di una presenza nuova (medico, infermiere, volontario) che fino a poco tempo prima non era nessuno e invece è lì che lo ascolta, che lo comprende , che con lui sente compassione per la sua vita e con lui la vive , con la stessa disperata e innamorata credenza; che è la sua compagnia in una nuova solitudine, insomma il suo esserci nel modo giusto e nel momento giusto rappresenta per lui un punto fermo.
Nel caso dell’assistenza domiciliare il medico, l’infermiere il volontario devono imparare poco a poco ad orientarsi in un mondo che non è il loro, che inizialmente non dice e non trasmette nulla e che al contrario è lo scoglio cui si abbarbica il malato che si difende da un mare in tempesta. La malattia ha cambiato la sua vita, spesso ha interrotto il suo lavoro, a volte ha affievolito almeno apparentemente gli affetti che gli gravitano intorno perché ognuno di noi ha un modo personale di affrontare o reagire al male che devasta ogni nostra sicurezza. Bisogna prendere atto di tutto questo quadro e mettere insieme i pezzi, cercare di orientarsi nell’immensità di una vita che si è ridotta all’orizzonte di quattro pareti. Ed incontrare gli altri non sempre è facile, non c’è sempre una ripondenza immediata. C’è chi sfugge, chi minimizza, chi nasconde, chi non accetta , chi è disperato,chi nega, chi non ce la fa a vivere accanto ad una vita che si spegne.
E non c’è comunicazione tecnica e informatica la più avanzata che può raffrontarsi con l’immediatezza del contatto diretto, del suono della parola, dell’espressione del viso che comunica e non solo.
Tu, come stai? Ancora più difficile a volte farsi capire quando le lingue non combaciano, e le sensazioni, gli stati d’animo sono così fortemente nuovi per gli altri che non comprendono la mia lingua, la mia sofferenza altra, che è anche il distacco dalla casa lontana, dalla famiglia lontana, dalla terra lontana. Come far capire la mia disperazione, come fare per comprendere la sua disperazione, dove si incontrano i nostri cammini per aiutare la vita a procedere con la forza di una nuova intesa? E ‘ a questo punto che non servono le parole, che intervengono i gesti dettati da un sentimento profondo che non confonde le idee ma le illumina. E allora veramente non c’è più età , nè nazionalità , né lingua, c’è solo la vita che insegna. E forse sono proprio gli anziani a dare “il filo di Arianna” per uscire dall’empasse. Perché la vecchiaia ha in sé una grande ricchezza. Dice il poeta Eliot: gli anziani dovrebbero essere esploratori…perché sono loro che vanno avanti e che con la vita scoprono “ vita”, lì sempre avanti , dove noi non siamo ancora arrivati, ci fanno strada.
Tra noia e rimpianti gli anziani magari aspettano un gesto che un giorno se mai invecchieremo attenderemo pure noi, una mano tesa, un sorriso , un ammiccamento, una carezza (Dio come sono rare le carezze!) che sia segno di gentilezza, di tenerezza, sconfitta di ogni forma di indifferenza. Se Dio vuole, la vecchiaia ci tocca a tutti, superiamo dentro di noi lapaura di sprecarci, quella tendenza a chiuderci dentro un guscio che è solo anticamera della morte. Sì, ma non aspettiamo la vecchiaia per chiedere e dare, mettiamocela tutta di energie mentali e comportamentali per fronteggiare una situazione che mai avremmo pensato di dover affrontare. La capacità reattiva di un individuo ha dell’ inverosimile se solo una mano si tende che sia latrice di:
“Gentilezza”
Autore: Naomi Shihab Nye
Prima di conoscere che cosa sia veramente la gentilezza
devi perdere delle cose,
percepire il futuro disperdersi in un istante
come il sale diluito nel brodo.
Ciò che tieni nella tua mano
ciò che hai contato e con cura conservato,
tutto questo deve andare
affinchè tu sappia
come può essere desolato il paesaggio
che introduce tra le regioni della gentilezza.
Come ti affanni a correre
pensando che l’autobus non si fermerà mai,
e i passeggreri che mangiano pollo e mais
osserveranno il mondo attraverso il finestrino per sempre.
Prima di conoscere dove si nasconde il delicato cuore della gentilezza,
devi recarti dove l’indiano dal poncho bianco
giace morto ai piedi della strada.
Devi scoprire che lui è come te,
anch’egli ha viaggiato con i suoi progretti
attraverso la notte
ed il semplice respiro che lo manteneva vivo.
Prima che tu riconosca la gentilezza come la parte più profonda di te
devi conoscere il dolore come l’altra parte più profonda.
Devi svegliarti con questo dolore.
Devi parlargli sino a che la tua voce
intessa tutti i fili delle voci dolorose
e tu ne conosca la misura dell’abito.
Allora incontrerai la gentilezza che restituisce a tutto il suo senso,
la gentilezza che allaccia le tue scarpe
e ti spinge durante il giorno a scrivere lettere
e comprare il pane,
la gentilezza che solleva questa testa
dalla moltitudine del mondo per dirti:
“sei tu che avevo sempre cercato”,
e poi ti accompagna ovunque
come un’ombra od un amico.
ADELE ARCHETTI COSENTINO
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